Sto tornando!

Un treno passa.
Mare in tempesta.
Signora che parla.
L’amica è morta.
Poverina!


La signora piange.
Guardando il mare.
L’orizzonte.
Il sole che si intravede.
Le nuvole lontane.


La signora è triste.
Qualcosa è cambiato.
Una presenza in meno.
Un’amica in meno.
Una voce in meno.

Prende il telo.
Ed inizia a camminare.


La signora, ora, è sola.
La figlia la chiama.
E le dice: “Dove sei?”
La signora risponde: “Sto tornando!”

Aspettando la pioggia

Mi siedo.
Vedo fuori.
Una nuvola.
Forma distratta di un temporale che sta arrivando.
Grigio.
Rosa.
Rosso.
Verde è il mio colore preferito.
La Primavera. La natura. Gli Alberi che delimitano.
Delimitano giorni, vite. Situazioni.
Qualcuno da lontano mi saluta.
Gli dico: “Ciao! Come stai!”
Lui:”Bene!”
Se ne va!
Sono ancora fuori.
Seduto.
Aspettando la pioggia.

E guardo i colori della notte…

autumn moments (6)

Seduto su una poltrona brutta, guardo in alto.
Solo un lampadario che dondola. Forse il terremoto, forse pensieri che vagano.
Non ho più 20 anni, non sono niente per gli altri. Non ho un’identità sociale. Riconosciuta. Osannata. Pubblicizzata. Messa in vista. Ridotta a un pezzo di carta.
Perché così mi ci pulisco il culo! No?
Non sono volgare. Scusate!Ops!
Seduto su una poltrona, oramai disseminata da pipì del cane, mi guardo dentro.
Mi vedo triste, felice, contento, ansioso, ansioso, ansioso, ansioso, a volte a pezzi.
Come pezzi di carta che col vento vengono trasportati altrove.
Dove non conosco nessuno. Dove piccoli agnellini bevono, forse, il latte.
Mi alzo dalla poltrona, guardo fuori e dentro.
Lascio cadere,a terra,tutto ciò che mi attanaglia.
E mi allungo sul letto. Dormo. Mi alzo. Poi esco.
E guardo i colori della notte…

Incompresa

autumn moments (5)

Era una bambina che amava il cioccolato. Il gelato al cioccolato. Ogni giorno tirava la gonna della mamma e le diceva :”Mamma, mamma, voglio il gelato!”
E la mamma le rispondeva: “Al cioccolato, naturalmente!
Non amava gli spinaci, la frutta. Solo il gelato.
Anche d’inverno, quando le nuvole sprigionavano pioggia. E i bambini stavano a casa, distruggendola. Spargendo, per terra, giocattoli.
Assunta, questo era il suo nome, viveva in un piccolo paese dell’entroterra abruzzese. Ed era figlia unica.
Questo le pesava, un po’. Perché non poteva confidarsi con nessuno. Non poteva dire a nessuno quanto le piaceva disegnare.
Alberi, case grandi. Piazze giganti. Panchine vuote. Mamme sole, con accanto cani.
Un giorno decise di nascondersi, per non farsi ritrovare. In quanto incompresa.
Si nascose in una parte della casa, accessibile solo a lei. Alla sua statura.
E da lì, sentì quel nero che aleggia nelle persone preoccupate. Ansiose.
Che hanno perso qualcosa.
E da lì, sentì quel silenzio assordante. Che uccide, chi ti ama.
Assunta, alla fine, decise di uscire. E chiese scusa a sua madre.

C’è solo la notte che mi fa compagnia

Notte. L’ho vista arrivare. Ecco, arriva. La finestra è aperta. Io, seduto osservo: il giorno, che si sgretola davanti ai miei occhi. Che hanno visto tanto. Oggi.

Ho visto il mio corpo che, nudo, tra coperte sgualcite, si dava a un altro. Passione estrema, senza sentimento. Sentimento dimenticato ai bordi di una strada, per un po’. Sono stato puro istinto. Come due cani. Come due gatti. Come oggetti senza definizione, che si incontrano. Poi sbattono. Ma, non sentono nulla.

Io, invece, ho sentito l’istinto. Una carica animalesca, che mi ha fatto essere libero. Vagare senza un obbiettivo, un appuntamento fisso. Una data. E’ vero le date servono, per il nostro equilibrio. Servono per andare avanti. A volte (come oggi), vorrei dimenticarle.

Ho visto il mio corpo, che si concedeva al sesso di un altro, conosciuto da poco. Conosciuto per caso, in un bar di provincia. Un bar dove vecchi si scambiano carte. Giochi. Consigli quotidiani.

Ho visto il mio corpo spingersi oltre. Oltre le solite convenzioni di due avvocati che si salutano per strada. Ciao come stai? Tutto bene. Punto.

Notte. Ecco, è qui. Guardo immagini di fuori, che pian piano hanno perso la definizione. Una mia amica cerca di chiamarmi. Lui già mi ha dimenticato. Da poco ha lasciato la ragazza. Vuole solo divertirsi. Posso capirlo.

La stanza odora di sesso. Ancora. Il suo corpo ha permeato la mia pelle. Che ho cercato di pulire. L’odore rimane. Forte. Fermo. Fisso.

Fisso la stanza. Lui non c’è. C’è solo la notte che mi fa compagnia.

Umani

Vilma beve un caffè.

Ha 71 anni e vive con sua sorella, che di anni ne ha 84.

Non so il suo nome. Ma, me ne parla sempre.

Vilma beve un caffè mentre fuori: gente va al tribunale. Avvocati distratti. Ragazzi che baciano ragazze e poi ragazzi.

Vilma, questa mattina, doveva venire in palestra. Mi dice sempre che ama la palestra: ridere con le sue amiche, fare gli esercizi che la tengono su. Per un attimo, allontanare i pensieri di donna che si avvicina alla vecchiaia estrema. Come definisce lei, l’ultima parte della vita.

Questa mattina, la palestra era vuota senza di lei.

Vilma continua a bere quel caffè. Oramai quasi terminato.

Si fa delle domande. Alle quali non sa dare risposte. Rispondere. E poi perché?

Ha paura di rimanere sola. Senza la sorella. La sua prima mamma.

Vilma è sensibile, forse troppo. Forse come me, come te che leggi.

Perché si è umani sempre. Non solo a trent’anni. A quaranta. A sedici anni. Quando il sole spacca persino le pietre.

Vilma esce dal bar. E si fa una passeggiata.

Calpestando vie antiche e osservando volti noti e sconosciuti.

Ai bordi di una scala…

Ai bordi di una scala, il tempo si è fermato. Si è fatto piccolo. Non esiste.

Non occorre sapere da dove proviene quella paralisi, perché ora non ci può fare nulla.

Sergio, seduto sul primo scalino, piange lacrime. Lacrime amare. Derivate da un senso di vuoto, di inutile inesistenza.

Vorrebbe gridare al mondo “Ci sono!”

Ma, si è stufato.

Si è stufato dei no, di non essere nessuno.

Non aspira ad essere un poeta o un artista. Un mago o un ministro. Vorrebbe essere qualcuno riconosciuto socialmente. Che può essere d’aiuto. Che può vantare ai suoi occhi quello che è. Che è diventato.

Purtroppo, la vita è un treno. Va troppo veloce. A volte, si perdono le fermate. Non per colpa nostra. Ma, di un destino.

Un destino che non ha una definizione, che non si può addobbare come un albero di Natale.

Un destino buio o di luce. Che esiste.

Ai bordi di una scala, Sergio ha smesso di piangere. Ora è calmo.

Fuori il sole delinea le case, i bambini vanno in palestra. E le maestre, indaffarate, parlano solo di scuola.

L’uomo solo

Conosco un signore che ha come proprietà una macchina. Quando vado in palestra, lo incontro. Cura la sua macchina come la rosa del Piccolo Principe.

Questo signore ha gli occhiali da vista ed avrà circa 50 anni. Parla poco. E’ taciturno.

La sua macchina contiene: lenzuola, letto, vestiti e persino fiori. Ha anche gli elastici che gli servono a “saldare” coperte, per proteggere la macchina dai raggi solari.

E’ un uomo buono, gentile. Ma, come se non esistesse. Forse si sente libero così, forse ha paura degli altri. Del mondo, spesso ostile. Dei pregiudizi che delimitano.

La sua vita gira tutta intorno al suo mezzo. Ma, è un mezzo che non cammina. Un po’ come noi che abbiamo la nostra casa, il nostro rifugio, e ci sentiamo al sicuro solo lì.

 

L’uomo solo di Leo Ferré

 

 

Ma non sai rialzarti

Attimi si intersecano, forse litigano, forse no. Suonano come spine di rose. Si percepiscono. Li percepisci.

Seduta su una sedia, sfogli pagine di libro. Poi di quaderno. Quel quaderno che odiavi tanto. Addizioni, sottrazioni, moltiplicazioni. Faccine disegnate.

Ti tocchi i capelli. Sfibrati. Non ti curi come una volta. Quando uscivi, sorridente. E quel sorriso bianco. Senza imperfezioni. Imperfezioni che non pensavi di avere. Ma siamo imperfetti, cazzo!

Bevi acqua calda, perché dici che purifica. A piccoli sorsi, termini quella sostanza quasi sporca. Nera. Quel nero che non riesci a capire. E ti distrugge. Ti sta continuando a distruggere.

Ti alzi dalla sedia. Vai verso la finestra. Fuori tutto è fermo. Sono le tre di pomeriggio. Ed un caldo quasi caldissimo ha reso gelide le rose rosse. Ancora più ferme, le macchine verdi che erano verdissime. D’inverno.

Guardi fuori e guardi dentro.

Ripensi agli attimi, ai ricordi.

Ti hanno resa fragile, sensibile. Dolcemente complicata. Complicata e strana. Agli occhi degli altri.

Ti siedi di nuovo. E continui a sfogliare quel quaderno. Impassibile. Fino a tarda sera.

La sera, ti alzi, vai a letto e fai finta di dormire.

Attimi si intersecano, forse litigano, forse no. Suonano come spine di rose. Si percepiscono. Li percepisci. Ti tormentano perché hai paura di cambiare.

Ma, non sai rialzarti.

La carezza di suo padre

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foto presa dal web

Si era fatta tatuare un nome di persona. Su quel braccio pieno di ferite. Ferite di un’adolescenza problematica, di abbracci mai dati, di sguardi pieni di odio. Rancore.

Ora in una sala di attesa di un ospedale di provincia, ripensava e pensava a quel padre assente. Quel padre che non l’ha fatta mai sentire sicura. Quel padre che voleva diverso, forse per sentirsi come le altre sue amiche. Che avevano una figura di riferimento. Un porto sicuro, in un mare in tempesta.

Sonia, ora, spera di poter recuperare quel rapporto. Pur sapendo che non era colpa sua. Pur sapendo che lei era piccola e non avrebbe potuto affrontare le cose diversamente.

Sonia ora attende che suo padre si risvegli da un coma che da un giorno all’altro l’ha trasformato. Un corpicino minuto e indifeso in una sala che lei può vedere solo da un finestrone gigante. Un finestrone che ha trasformato la sua rabbia in umanità. Un’umanità che ha fatto scomparire una pioggia incessante scura, che si posava non dolcemente sulla finestra della sua macchina. Ogni volta che i suoi pensieri si orientavano su quell’uomo per nulla facile.

Si è fatta tatuare il nome di suo padre, Sonia. Qualche anno fa. Quando era ancora adolescente ed aveva bisogno di carezze. Le bastava solo una carezza. La carezza di suo padre.